Discorso alla Città dell’Agro 2016
Signore e Signori,
Autorità,
Chiesa pellegrina in Nocera Inferiore-Sarno,
ecco nell’Anno Giubilare il Discorso alla Città, alla Città dell’Agro, come un atto di Magistero desideroso di raggiungere, partendo dalla Porta Santa della Cattedrale di San Prisco, la porta di ogni cuore.
Per ogni persona, il Vescovo ripete le parole del pastore mendicante: Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Ap 3,20). È questo aprire, prima al Signore e in Lui ad ogni uomo, un segno di misericordia e un antidoto alla solitudine, malattia che sta bloccando i nostri rapporti.
Rileggendo per voi e con voi una bella pagina biblica – Davide e Golia in 1Sam 17,31-51 – vorrei dare
al nostro convenire questo tema: Cinque ciottoli nella bisaccia: dalla solitarietà alla solidarietà.
Ho chiesto, come sempre, alle nostre claustrali e ai tanti oranti di accompagnarci con la preghiera in
questo percorso, perché ad ognuno ritorni sempre più chiaro il fatto che se il Signore non vigila sulla
città, invano veglia la sentinella (cf. Sal 127,1).
Una porta aperta nel Cielo
(Ap 4,1)
Comincerei con una preghiera, quasi per toccare con mano l’abisso della solitudine vissuta da tanti.
Signore, riprendici in tua compagnia:
soli, ci sentiamo infreddoliti;
soli, proviamo paura e disperazione;
soli, siamo poveri e impotenti;
soli, siamo perduti.
La nostra fuga da te ci ha avvicinati all’inferno.
Salvaci da noi stessi, dalla tentazione di ignorare la tua presenza e di rinchiuderci nella meschinità del
nostro essere.
La tua solitudine diventi la nostra pienezza;
in tua compagnia, la nostra solitudine si dilegui.
(Karekin I, III stazione Via Crucis al Colosseo 28 marzo 1997)
Chi è, oggi, Golia, il gigante contro il quale siamo chiamati a combattere?
E dinanzi al Golia di turno, come tornano attuali e puntuali le parole del giovane Davide:
Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai sfidato (1Sam 17,45).
E come è saggio quel gesto di Davide che, appesantito da troppe armature, si libera ed è libero nella fede del suo Dio:
Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e lo rivestì della corazza. Poi Davide cinse la spada di lui sopra l’armatura e cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: “Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato”. E Davide se ne liberò (1Sam 17,38-39).
Golia può essere l’immagine della forza; Davide è l’icona della fortezza, di chi sceglie di andare e combattere in nomine Domini (cf. GS 37).
Malati di solipsismo
Siamo abitati – dinanzi ai tanti Golia – da una solitudine esistenziale, antropologica, che diventa assenza di senso e l’uomo, sempre più liquido e inconsistente, si sente come gettato nel vuoto, solo, e non più dinanzi al Solo, l’unico Dio, ma irrimediabilmente solo e spaesato, quasi estraneo a se stesso. Bene ha stigmatizzato Eugenio Montale questa condizione umana nel testo “Il male di vivere”.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
E ci accorgiamo che proprio le nazioni che, per prime, hanno ceduto al laicismo, oggi pagano lo scotto di una realtà vuota e inconsistente, nella quale, alimentato dal nichilismo, il terrorismo si annida e diventa risposta tragica al vuoto esistenziale.
Ci sovviene un canto della nostra infanzia che, a scuola o nei cortili, si ripeteva insieme: La solitudine si deve fuggire, si deve fuggire; solo tra compagni si può gioire, solo tra compagni si può gioire.
La cultura, o pseudocultura odierna, come risposta al solipsismo impone, e mai propone, un chiudersi sempre di più, alimentando la sfiducia e insegnando, con ragionamenti subdoli e
telecomandati, ad abitare gli spazi della chiusura, a far crescere la diffidenza, ad affidarsi ai maestri del terrore, del sospetto e del non rispetto; a rintanarsi nei percorsi virtuali che, alimentando la solitudine, fanno crescere la paura a dismisura, inculcando nell’uomo un sentimento anti-uomo. E, scendendo dal regno umano a quello animale, ricerchiamo sempre di più la compagnia degli animali che – povere bestie! – assolvono la missione di curare le nostre solitudini, facendo delle nostre case piccoli zoo.
Ma la solitudine aumenta perché il compagno o la compagna scelti non è un aiuto che gli corrisponda (Gen 2,18), secondo il concetto genesiaco e il pensiero di Dio.
Sarà per vincere queste solitudini che, nelle parabole della misericordia, il Maestro ogni volta invita ad invitare per poter fare festa, perché non si può gioire e vivere da soli: va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”; e dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto” (cf. Lc 15,6.9).
Voglio segnalare alcune derive di queste solitudini e lo faccio nel decennio in cui i Vescovi italiani ci hanno invitato ad investire nuovamente sull’educazione con gli Orientamenti Pastorali – Educare alla vita buona del Vangelo – cercando di arginare l’emergenza educativa.
Educare vuol dire anche ex ducere, condurre fuori la gente da situazioni di stallo e di patologie, prima che la porta venga chiusa (cf. Mt 25,20).
• Non è educativo, per esempio, con una mano scrivere il fumo uccide e pubblicare foto da terrorismo psicologico, e con l’altra mano firmare il decreto per monopolizzare la vendita delle sigarette.
• Non è educativo produrre uno spot contro il gioco d’azzardo, e con l’altra mano firmare il permesso per aprire le sale da gioco, anticamere di grossi sfaceli e patologie.
• Non è educativo, con una mano gettare in aria colombe e palloncini inneggianti alla pace, e con l’altra nascondere e vendere le armi.
• Non è educativo dipingere con una mano paradisi artificiali, geografie virtuali, e con l’altra continuare a sporcare la creazione, paradiso di Dio, e disattendere così le chiare indicazioni di Francesco, offerte nella Laudato sii. Finché il male non ci tocca, si fa finta di non vedere, mentre si avvelena e si affumica l’ambiente. Folle di malati oncologici – ahimè tanti bambini! – intraprendono, accompagnati dalla nostra indifferenza, i loro viaggi della speranza. Il bene comune, che è la salute e la salvaguardia del creato, viene barattato con il bene privato. E, mentre la casa comune soffre e muore, la cassa di pochi si riempie sempre più.
• Non è educativo far finta di promuovere le donne e poi permettere il commercio del sesso, in modo subdolo o spudorato, specialmente nei percorsi delle autostrade mediatiche e virtuali, creando dipendenza per poi spacciare ed arricchirsi, come avviene con la droga.
• Non è educativo continuare ad ammazzare i piccoli artigiani, le piccole botteghe, imponendo, per ragioni di mercato, grandi centri commerciali, dove certamente trovi di tutto, è più comodo fare la spesa, attirato da moderne sirene, che invitano a comprare e consumare. Ma in quei luoghi perdi anche la tua intimità e la tua libertà, perché là qualche Golia deve lavare soldi sporchi. Come è saggio ciò che disse Socrate al mercato di Atene: “Sono venuto per vedere tutto ciò di cui non ho bisogno”.
• Non è educativo per le comunità cristiane omologarsi ai pensieri del mondo, dimenticando la parola del Maestro: tra di voi non sia così (Mc 10,43), e ricordare la parola saggia dei nostri anziani: non fare il santo in Chiesa e il diavolo a casa!
Dinanzi a questo gigante mediatico-culturale-economico, cosa può fare il giovane Davide?
Ecco, siamo posti continuamente nella scelta tra la forza, che ci schiaccia e ci stritola, e la fortezza che, come la verità, può renderci liberi.
Qui c’è la radice di uno squilibrio che richiede ad ognuno onestà intellettuale e fermezza nelle decisioni, a favore del bene e della pace.
Se tutto ciò, ed altro ancora, non è educativo, ci chiediamo: che cosa è educativo?
Soprattutto occorre ripartire da una corretta concezione dell’uomo: non come individuo, isola incomunicabile in un arcipelago di isole non comunicabili tra di loro; ma come persona che, fatta ad immagine del Dio trinitario, vive in una fitta trama di relazioni nelle quali le sue potenzialità si possono esplicitare. L’educazione è relazione costruttiva tra persone, che reciprocamente si accettano anche nel limite e così si donano.
Nella prospettiva cristiana educare è amare ed è tra le più alte forme di carità; è offerta sovrabbondante e magnanima.
Educare è continuare evangelicamente a fare due miglia di strada con chi ti forza a farne un miglio con lui (Mt 5,41); è cedere anche la tunica a chi ti porta via il mantello (Lc 6,29); è dare senza aspettarti il corrispettivo (Lc 6,35); è opera di misericordia per far comprendere ad ogni uomo che il modello è Gesù, il quale svela “pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (GS 22); è far comprendere che la città è popolata di cittadini, ma solo il cielo è abitato dai santi.
Dinanzi alla porta
Davide si libera dell’armatura e si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nella sua sacca da pastore, nella bisaccia (cf. 1Sam 17,40).
I cinque ciottoli, per attraversare la porta della speranza, possono essere per noi i cinque verbi fiorentini?
I verbi Uscire-Annunciare-Abitare-Educare-Trasfigurare, voce del Verbo, vie del convenire delle Chiese che sono in Italia al V Convegno Ecclesiale di Firenze (9-13 Novembre 2015).
Li vogliamo ricordare ancora, trascriverli con pastelli a colori sulle lavagne delle nostre comunità, per coniugarli in tutti i modi e in tutti i tempi nelle nostre realtà umane ed ecclesiali.
Sono cinque, come i cinque ciottoli che Davide ripone nella bisaccia per sconfiggere Golia; e Davide vince, non per la potenza dei mezzi, ma perché crede.
Vorrei da ogni verbo tirare fuori per noi un solo impegno, il resto lo farà la vostra fantasia.
USCIRE: da sé per incontrare se stesso e l’Altro;
ANNUNCIARE: solo la gioia del Vangelo;
ABITARE: essere contenti della nostra pagina di geografia;
EDUCARE: se stessi, sul modello di Cristo Crocifisso e Risorto;
TRASFIGURARE: avere volti e gesti luminosi ben sapendo, con Dante, che trasumanar significar per verba non si poria (Paradiso, I, 70), cioè la bellezza non si può spiegare, ma si può vedere e far vedere, cioè mostrare nella nostra umanità riuscita, raccontandola.
…il nostro cuore fa una lenta maglia
Mi piace concludere questo mio intervento rivolto alla città dell’Agro con il testo La Pasqua dei poveri, che ho utilizzato e inviato per gli auguri pasquali; lirica di Carlo Betocchi, poeta italiano, nel trentennale della sua morte:
Forse per noi che non abbiam pane,
forse più bella è la tua Santa Pasqua,
o Gesù nostro, e la tua mite frasca
si spande, oliva, nelle stanze quadre.
Povero il cielo e povere le stanze,
Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
e il nostro cuore fa una lenta maglia
col cielo, che ne abbraccia le speranze.
Semplice vita, alle nostre dimande
tu ci rispondi: Su, coraggio, andate!
Noi t’ubbidiamo; e questa povertà
non ha bisogno più d’altre vivande.
Noi siamo tanti quanti alla campagna
sono gli uccelli sulle mosse piante,
cui sembra ancor che le parole sante
giungan col vento e l’acqua che li bagna.
A noi non visti, nelle grige stanze,
miriadi in mezzo alla città che fuma,
Sabato Santo, la tua luce illumina
solo le mani, unica festa, stanche.
A noi la pace che verrà, operosa
già dentro il cuore e sulla mano sta,
che ti prepara, o Pasqua, e che non ha
che il solo pane per farti festosa.
La lenta maglia della speranza, frutto della Pasqua, è il dono che chiediamo a San Prisco, primo evangelizzatore dell’Agro, per ognuno di noi e per la nostra città, mentre attraversiamo la Porta della Misericordia, che coincide con la Porta della Pasqua, Porta della Speranza.
A Pasqua, Gesù scartato dagli uomini diventa la pietra angolare, pietra che regge tutto l’edificio.
Pasqua ci dice che gli scarti – Davide e non Golia – sono le pietre che reggono la nostra società, la nostra convivenza umana, sociale, politica ed ecclesiale.
Ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi (cf. Sal 117).
Ci sostengano nella lotta quotidiana le parole di Papa Francesco, nel messaggio Urbi et Orbi, pronunciato il giorno di Pasqua (27 marzo 2016); parole che ci aiutano a passare – cioè a fare Pasqua – dalla solitarietà alla solidarietà: A quanti nelle nostre società hanno perso ogni speranza e gusto di vivere, agli anziani sopraffatti che nella solitudine sentono venire meno le forze, ai giovani a cui sembra mancare il futuro, a tutti rivolgo ancora una volta le parole del Risorto: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose… A colui che ha sete darò gratuitamente acqua dalla fonte della vita” (Ap 21,5-6). Questo rassicurante messaggio di Gesù, aiuti ciascuno di noi a ripartire con più coraggio e speranza per costruire strade di riconciliazione con Dio e con i fratelli. Ne abbiamo tanto bisogno!
Vi benedico,
† Giuseppe, Vescovo